Dopo aver esplorato i due regni del suo pensiero, Kant si trovò di fronte a un dualismo apparentemente insanabile:
Questi due mondi sembravano separati da un "incommensurabile abisso". Come può l'uomo, essere naturale sottoposto a leggi fisiche, essere allo stesso tempo un soggetto morale libero? La Critica del Giudizio (1790) nasce proprio per gettare un ponte su questo abisso, cercando un punto di mediazione tra il mondo della conoscenza e quello della morale. La facoltà che Kant pone al centro di questa indagine è il Giudizio (Urteilskraft), non più nel suo uso conoscitivo, ma in una sua nuova funzione "riflettente", legata al sentimento di piacere e dispiacere.
Kant distingue due tipi di giudizio:
Questo tipo di giudizio non produce conoscenza oggettiva, ma esprime un'esigenza umana di trovare un senso e un'armonia nel mondo. Questo processo si manifesta in due forme principali: il giudizio estetico (il bello e il sublime) e il giudizio teleologico (il fine della natura).
Questa è la prima e più celebre parte dell'opera, in cui Kant analizza ciò che proviamo di fronte alla bellezza e alla maestosità della natura o dell'arte.
Quando formuliamo un giudizio di gusto (es: "questo tramonto è bello"), stiamo esprimendo un sentimento particolare. Kant lo analizza in quattro "momenti":
Il sublime è un'esperienza estetica diversa e più complessa del bello. Nasce non dall'armonia, ma dal caos, dalla dismisura e dalla potenza schiacciante della natura. È un sentimento ambivalente di piacere e dispiacere.
In questa seconda parte, Kant analizza la nostra tendenza a interpretare la natura, e in particolare gli organismi viventi, come se fossero organizzati secondo un fine (telos).
Quando osserviamo un albero o un animale, le sole leggi meccaniche non bastano a spiegarne la complessità. Ci appare come un sistema in cui ogni parte esiste in funzione del tutto e il tutto esiste in funzione delle parti. Lo giudichiamo come se una mente intelligente lo avesse progettato.
Questo finalismo, però, non è una legge oggettiva della natura (non possiamo dimostrare scientificamente che esista un "progetto"). È, ancora una volta, un principio regolativo del nostro giudizio riflettente: un'idea guida che ci aiuta a studiare e a dare un senso unitario al mondo naturale.
Il giudizio estetico e quello teleologico ci permettono di guardare alla natura non più solo come a una macchina cieca, ma come a una realtà che possiede un'intima affinità con le nostre esigenze spirituali e morali.
Questo sentimento di armonia e la percezione di una finalità nel mondo gettano il ponte tanto cercato: la natura non è un luogo estraneo o ostile alla nostra libertà; al contrario, essa appare come se fosse predisposta per la realizzazione della nostra vocazione morale.
In questa prospettiva, l'unico essere che può essere considerato il fine ultimo della natura è l'uomo, non come semplice essere biologico, ma come soggetto morale. Il mondo sembra trovare il suo senso più profondo nel permettere all'umanità di agire liberamente e moralmente. La bellezza e l'ordine del mondo naturale diventano così il simbolo e il terreno fertile del bene morale.